Se dovessi dare un nome al fattore di miglioramento più efficace in relazione alla cura dei disturbi alimentari questo nome sarebbe un nome proprio di persona. Il nome di chi tutti i giorni lotta accanto a chi ha reso il cibo il suo principale nemico, per provare a salvare una vita, un’esistenza, un progetto.
Queste righe non hanno la pretesa di essere scientifiche o particolarmente documentate, ma mirano, con semplicità e chiarezza, a spalancare quella finestra socchiusa che si affaccia su un problema ormai così diffuso e inarrestabile.
Teorie comportamentali, teorie cognitive, metodi sperimentali e quant’altro, cercano, con la presunzione del voler a tutti i costi ottenere una “guarigione”, strade alternative per la risoluzione di questa malattia, senza riuscire però a raggiungere il proprio scopo.
Eppure, chi vive o ha vissuto questa situazione, in prima persona o meno, saprà perfettamente che l’ancora di salvezza, l’unica possibile nel mare in tempesta che si crea nella mente e nel cuore di chi soffre di questo disturbo, è costituita e rafforzata dagli “affetti”, dalle relazioni che circondano chi soffre, dalle parole, dagli sguardi, dalle lunghe conversazioni che aprono piccoli spazi dai quali far filtrare la luce: una luce che riporti equilibrio, illuminando il buio di un isolamento interiore che non permette alcun progresso.
Per le persone che con coraggio aiutano i loro cari ad affrontare questo problema ogni giorno diventa una battaglia, combattuta a mani nude, in un “corpo a corpo mentale” estenuante e soprattutto imprevedibile. Quello che oggi può dare ottimi risultati, domani potrà scatenare una crisi; una parola detta a fin di bene può rimbalzare nella testa di chi soffre di questi disturbi come una pallina in un flipper, accendendo tutti gli allarmi in pochi minuti e rendendo vana ogni successivo tentativo di spiegazione.
Ciò crea inevitabilmente un senso di frustrazione, di panico, di impotenza. Ma non bisogna scoraggiarsi. In questi casi la costanza e la perseveranza premiano, la pazienza è un prezioso alleato, e un procedimento per prove ed errori risulta essere l’unica strada percorribile.
Bisogna sempre ricordare che chi ha un disturbo dell’alimentazione cercherà di allontanare le persone che vogliono aiutarlo, mentendo, chiudendosi in se stesso, diventando scostante ed intrattabile. Questo non vuol dire che non ha bisogno di aiuto; questo non significa affatto che vuole rimanere solo.
In questo percorso purtroppo non esistono leggi, regole, manuali da seguire alla lettera, ma solo un lento adattarsi, un paziente donarsi, un sapiente procedere ascoltando il cuore, nella consapevolezza di avere di fronte una persona che può migliorare solo con il nostro aiuto.
Ogni persona è diversa, “costruisce” il proprio disturbo su basi differenti ed utilizza le sue peculiarità come muri, barriere che solo un attento osservatore può imparare ad aggirare, scoprendo giorno dopo giorno come agire, pensare e sentire, in una danza “a specchio” ardua ma fondamentale.
La delicatezza va sempre perseguita come punto cardine di ogni approccio che abbia come obbiettivo un miglioramento, tralasciando gli interventi “aggressivi atti a spronare”, che tanto male hanno prodotto e continuano a produrre.
È fondamentale ricordare però, che lo stesso specchio nel quale cerchiamo di leggere la verità dell’altro, riflette i nostri comportamenti; se il problema spaventa anche noi, se i nostri comportamenti non rivelano un sereno rapporto con il cibo, se i nostri occhi mostrano una continua ricerca di controllo, o se, al contrario, rimaniamo in balia degli eventi, le nostre buone intenzioni finiranno solo per accentuare il problema. Non si mente se non si vuole che l’altro ricambi con la stessa moneta. Non si pretende che l’altro legga dentro se stesso se si vive in superficie.
Non bastano quindi parole di conforto, semplici incoraggiamenti, vuoti consigli, ma la vita di chi vuole seriamente aiutare chi ha un disturbo di questo tipo deve cambiare, crescere e maturare, in un lungo e lento processo che passa prima di tutto per la costruzione di una fiducia difficile da conquistare.
Eppure la rete di relazioni che dovrebbe sostenere ogni persona in difficoltà può portare seriamente al superamento, anche se mai realmente definitivo (è una lotta continua), di ostacoli che rendono la vita impossibile e che condannano a rimanere soli, prede della tempesta emotiva che questi problemi creano.
Partire dal cibo per curare è sicuramente logico e comprensibile, ma senza una rete di salvataggio non si otterrà mai un serio progresso. Il cibo diventerà mano mano una priorità, si trasformerà da acerrimo nemico a medicina, da freno a motore, ma rimarrà comunque una priorità assoluta nella vita di chi ha sofferto di questa malattia. E viverlo con gli altri diventerà indispensabile, rendendo i pasti una vera e propria ragione di vita e la compagnia a tavola un fattore necessario al mantenimento di una serenità ritrovata.
Solo così gli incubi possono diventare solo spiacevoli ricordi, sbiadendo pian piano, e lasciando il posto ai colori brillanti di un piatto cucinato con amore da chi passo dopo passo non si è mai arreso, di chi ha preferito lottare con se stesso piuttosto che cedere, piuttosto che perdere la persona amata.
La relazione quindi, in una realtà che è ancora lontano dall’essere compreso, può ancora una volta salvare, liberando da catene di paure ed incomprensioni il cuore e la mente di chi cerca di danneggiarsi, di scomparire agli occhi di un mondo troppo occupato, troppo veloce, troppo insensibile per fermarsi ad ascoltare un’anima che soffre, che avrebbe qualcosa da dire, se solo non le avessimo tolto la voce.
Scritto da una nostra lettrice Anonima che è riuscita ad uscire dal problema.
GRAZIE DI CUORE!!! E’ BELLO SAPERE CHE NON SONO SOLA!!!
Un saluto a tutto lo staff di Tecnologie mentali ed in particolare al direttore Vito Siracusa che mi ha aiutata molto in questo periodo per me difficilissimo!!!